Dal fiume Lee a un approdo inaspettato
Questo testo completa una trilogia dedicata a un viaggio di ricerca e riconnessione individuale, il mio. L’auspicio di chi scrive e di Tenet22 che questi scritti ha deciso di ospitare, è che chi legge possa trovarvi almeno qualche spunto utile per il proprio di cammino.
Il primo articolo ha esplorato l’educazione neuromotoria Feldenkrais, uno dei più ingegnosi sistemi di riconnessione psicofisica mai concepiti da mente umana, la cui potenza di rivoluzione interiore nel praticante è rappresentata dalla facilità di esecuzione e conseguente apprendimento. Nel secondo, sotto la guida sicura di Chiara Sideri, abbiamo esplorato il contradditorio, eppure affascinante, mondo della via chiamata, spesso con superficialità, Tantra. E grazie alla meravigliosa Chiara, con cui torneremo a parlare di argomenti altrettanto utili alla conoscenza di sé, abbiamo trovato le prime verità e svelato le menzogne più forvianti.
Qui, in ultimo, ci immergeremo in un’altra via di riconnessione con l’infinito, anch’essa troppo spesso fraintesa e vilipesa: Il Jeet Kune Do, traducibile come “via per intercettare un pugno”, ma più significativamente con il concetto di “Arte senz’arte”.
Siamo i nostri sogni
Ho circa 15 anni quando, la vista persa da due, inizio a fantasticare di poter un giorno diventare un guerriero. Il mio desiderio fanciullesco, a onor del vero, Affonda le sue radici nei primi anni della mia vita. Forse l’identificazione con un cavaliere impavido deriva da un aspetto che allora non è certo imponente, forse dal ricordo di una vita passata, per chi crede a questo genere di cose. Parlando seriamente, di sicuro c’è che la perdita della vista dona a quel pensiero ingenuo concretezza e un carattere d’urgenza. «Un giorno – penso fra me – dovrò provare a praticare le arti marziali».
Il ragazzino che ero allora capisce, seppure confusamente, che vi è un modo per rinascere. Ottenere, in cambio di ciò che ho perduto, una seconda vista. È allora che sento parlare di Bruce Lee, “il piccolo drago”. A 17 anni, grazie a un amico che me ne legge molti passi, conosco “Jeet Kune Do – Il libro segreto”. Si tratta dell’unico testo che Lee ci ha lasciato. Secondo sua moglie Linda, colei che riorganizza gli appunti di Bruce e pubblica il testo dopo la morte di questi e secondo altri amici dello straordinario personaggio di cui parliamo, egli aveva raccolto materiale per ben sette volumi.
Le pagine del libro, lettemi dal mio amico, rafforzano una intuizione che a quell’epoca non colgo coscientemente, ma si innesta in me come un seme che, nel tempo, germoglia e diventa qualcosa di importante. Non si tratta solo di tirare pugni e calci, ma di conoscere profondamente sé stessi, le proprie capacità e debolezze. Tuttavia, per molte ragioni che qui è superfluo indagare, all’epoca non ho modo di sperimentare nella pratica i concetti espressi da Lee.
Con l’università la mia ambizione marziale finisce nel dimenticatoio, sostituita da aspirazioni apparentemente più concrete e alla mia portata.
Bruce Lee
Chi era dunque quest’uomo? Forse dare qualche informazione è superfluo, ma è opportuno pensare ai pochi che non hanno mai sentito parlare di lui. Lee Jun Fan, più tardi da tutti chiamato Bruce, nasce nel 1940 a San Francisco, nell’anno del dragone. Muore, dopo una vita eccezionalmente ricca, nel 1973, senza aver ancora compiuto 33 anni. È di Hong Kong, ma ha la cittadinanza statunitense, per via del lavoro dei suoi genitori, artisti itineranti molto attivi e piuttosto conosciuti in America. I più lo ricordano per i film di arti marziali che portano il suo nome. Egli infatti è attore, sceneggiatore, regista e produttore cinematografico. Ma qui, in queste poche righe, c’è il Bruce Lee studioso, filosofo, scrittore e cultore di arti marziali, nonché creatore di un sistema che tratta di lotta, ma specialmente di approccio alla vita. Un sistema che, in ultima analisi, vuole essere uno strumento duttile per permettere a chi vi si accosta di esplorarsi nel profondo, in ogni sfaccettatura.
Un incontro fortunato, ma tutt’altro che casuale
È il 2008 e ho 32 anni. Da circa tre sono impegnato in un lavoro impegnativo e costante, riequilibrare le parti di me bisognose di essere guarite. Parto dalla pratica sportiva, ma ben presto mi sento spinto verso qualcosa di più. Giungo in tal modo a conoscere le pratiche cosiddette olistiche, cioè quelle tecniche che si rivolgono all’individuo nella sua interezza. Per chiarire, si rivolgono al corpo, allo spirito e all’anima nel loro insieme e non come parti separate. L’olismo è un approccio filosofico, medico e di benessere psicofisico. In questa sede non posso approfondire, ma il concetto meriterebbe un articolo a parte. Mi limito a osservare poche cose relativamente al terzo gruppo, quello delle pratiche di benessere psicofisico. Vengono spesso liquidate come sport, perdendone gran parte del loro significato. La pratica, per essere realmente olistica, deve coinvolgere ogni componente dell’individuo che vi si accosta. Deve accompagnarlo a fare i conti col proprio corpo quanto con la sua mente. Deve addestrarlo all’attenzione costante sul momento presente. In tali termini, almeno a mio umile avviso, è un errore considerare il Jeet Kune Do unicamente uno sport. In esso vi è assai di più.
Torno al 2008, quando ho già potuto fare una esperienza marziale che, pur bella, non è ciò che cerco. Scopro che nella stessa palestra in cui pratico c’è un istruttore che, fra le altre discipline, insegna il Jeet Kune Do. Per quanto duro, il sistema di allenamento di Lee è per me una rivelazione. È l’esplorazione corporea che cerco, da anni. Luca Mattu, l’istruttore che accetta di allenarmi, è la guida di cui ho bisogno. L’uomo giusto al momento giusto, come si dice. Bruce Lee era profondamente convinto che nessuna arte marziale è la migliore in termini assoluti. Anzi, egli vedeva in tali convincimenti un qualcosa di infantile, tipico di chi preferisce le monolitiche e illusorie certezze delle teorie alla pratica quotidiana della lotta, così come di ogni altro aspetto della vita. Praticare Jeet Kune Do significa essere disincantati. Vuol dire constatare in prima persona che ogni disciplina di combattimento ha saputo eccellere in qualcosa. L’autentico artista marziale, secondo Lee, prende ciò che gli occorre da una determinata disciplina, badando a individuare quale postura, guardia o attacco meglio si confà alle proprie caratteristiche. In altre parole, praticare Jeet Kune Do significa comprendere che le tecniche sono importanti, ma tu non sei la tecnica. Esse sono uno strumento che ti permette di comprenderti, ma non sono il tuo fine. Appena iniziati gli allenamenti, Bastano poche lezioni per accertare che ho dei problemi di equilibrio con le gambe. Nonostante ciò, riesco a esprimere una discreta abilità nella lotta. Capisco però che voglio di più e così sospendo, per circa un mese, gli allenamenti. Dedico quella pausa al Feldenkrais, conoscendone l’efficacia in tema di rieducazione neuromotoria per muscoli e articolazioni. Al mio ritorno, è lo stesso istruttore a notare il mio miglioramento nell’equilibrio. Così riprendo con maggiore tenacia il lavoro marziale interrotto. Per quanto sia duro, allenarmi costantemente mi permette di immergermi a fondo nella genialità insita nel sistema di lotta col quale mi confronto. Lo studio di sé stessi e delle proprie reazioni agli stimoli esterni. È quello il lavoro verso cui il Jeet Kune Do porta chi vi si accosta. Luca Mattu si dimostra un insegnante impareggiabile. Le nostre conversazioni post allenamento, i nostri feedback dinanzi a una birra o un caffè o semplicemente negli spogliatoi sono momenti chiave, fondamentali nella mia esperienza formativa marziale.
Ma l’intento di Luca è far sì che l’apprendimento passi attraverso la pratica e non tanto con le parole. Studiamo pugni, parate, guardie e attacchi, certo. Ma da subito capisco che quella è solo una parte del lavoro e nemmeno la più importante. Ciò che si palesa è la necessità di conoscermi. Capire quali sono le caratteristiche corporee che devo valorizzare, quali i punti di forza e i talloni d’Achille da curare. Solo allora si scelgono delle tecniche, come fossero abiti su misura da indossare.
Sono sempre stato un logico, un divoratore febbrile di libri e articoli di ogni genere. Con l’olismo non accade. Leggo poco o niente di Jeet Kune Do, di Feldenkrais e delle altre pratiche con le quali mi approccio. Preferisco viverle più che capirle con l’intelletto. Oggi so che tutto ciò non è stato un caso. La mia parte istintiva, stufa di essere soggiogata continuamente dalla logica, divenuta la padrona di casa incontrastata all’indomani della cecità, una volta tanto si impone. Il mio sé profondo, insomma, ha voluto spazzare via ogni approccio razionale in questa avventurosa riscoperta di me. E lo stesso Luca Mattu, pur apprezzando la mia cultura storica sulle arti marziali, mi incoraggia a lavorare con lui sul piano esperienziale, fisico ed emozionale. Ci sarà tempo, ci diciamo, per le speculazioni intellettuali. Sono i miei piedi, le mie mani e tutto il corpo che devono capire cosa stanno facendo, non tanto la testa. A quest’ultima invece, va impartita la lezione più dura e importante. Vivere nel qui e ora, tacendo.
Secondo Bruce Lee è inutile ostinarsi a eseguire alla perfezione un determinato movimento. Forse che un orso, un lupo o una tigre perderebbero tempo a chiedersi come sia il loro salto o la loro zampata? Ovviamente no. Gli animali sono immersi nella natura e nel proprio istinto. Proprio quello che noi esseri umani abbiamo perso da tempo, sostiene Lee.
Secondo Bruce Lee è inutile ostinarsi a eseguire alla perfezione un determinato movimento. Forse che un orso, un lupo o una tigre perderebbero tempo a chiedersi come sia il loro salto o la loro zampata? Ovviamente no. Gli animali sono immersi nella natura e nel proprio istinto. Proprio quello che noi esseri umani abbiamo perso da tempo, sostiene Lee. Ma che cosa deriva da questa presa d’atto? Alcuni aspetti sono certamente facili da comprendere e li si coglie immediatamente. Tutti intuiamo istantaneamente, spesso anche prima di cimentarci in una qualsiasi forma di lotta, se siamo più adatti a uno stile di combattimento a lunga o breve distanza, per esempio. Dipenderà dalla nostra conformazione di arti e busto se questo o quel metodo di combattimento è o no adatto a noi. Nello specifico, è semplice capire che soltanto la brevissima distanza o il contatto diretto con un ipotetico avversario garantisce a chi è privo della vista di competere con un vedente. Anzi, in tali situazioni un profondo conoscitore delle arti marziali, seppure cieco, può trovarsi in una posizione di vantaggio o almeno di parità, visto che l’avversario vedente è costretto in una posizione dove gli occhi sono quasi inutili, considerando il contatto ravvicinato fra i due combattenti. Vi sono però prese di coscienza assai più ardue da assimilare. E queste ultime prese d’atto sono difficoltose per tutti i praticanti, al di là delle caratteristiche individuali di ciascuno.
Affrontare la rabbia e imparare a escluderla dal combattimento, è probabilmente la prima e più ostica prova da superare per qualunque praticante marziale… Rabbia significa perdita di controllo e dunque scarsa lucidità.
Affrontare la rabbia e imparare a escluderla dal combattimento, è probabilmente la prima e più ostica prova da superare per qualunque praticante marziale. In realtà, la gran parte delle persone afferrano il concetto in modo chiaro, almeno con una parte della mente cosciente. Rabbia significa perdita di controllo e dunque scarsa lucidità. È la parte psicofisica di noi che vive addormentata a essere prigioniera delle re-azioni. Quella forza che risponde a ogni stimolo esterno menando colpi in modo scombinato, senza riflettere e dunque con scarsa efficacia, sarà assai difficile da educare alla ponderazione. D’altra parte, quando si familiarizza con cosa significa mettere attenzione in ciò che accade, si inizia a pensare troppo. I nostri movimenti divengono meccanici, lungamente meditati e finiscono col mandarci a tappeto nel giro di pochi istanti.
Non deve esservi alcuno spazio fra pensiero e azione. Ecco la lezione più complessa lasciataci in eredità da Lee.
In altre parole, si deve apprendere come recepire e interpretare in un istante quanto ci accade. Ciò va fatto con il corpo e senza l’ausilio degli occhi, pur vedenti.
Per il Jeet Kune Do, l’ho già evidenziato, il fine non è l’eleganza o precisione tecnica di un dato gesto, postura, guardia o attacco. La finalità principe è ottenere la fluidità dei movimenti. Mi viene da descriverlo come segue: quando capisci se sei lupo, leone o lepre, non ti sforzi di ricordare uno stile, determinate tecniche. Al contrario agisci spontaneamente, riscoprendo movimenti naturali e istintivi che ti sono propri.
Non deve esservi alcuno spazio fra pensiero e azione. Ecco la lezione più complessa lasciataci in eredità da Lee. In altre parole, si deve apprendere come recepire e interpretare in un istante quanto ci accade. Ciò va fatto con il corpo e senza l’ausilio degli occhi, pur vedenti.
Sconfiggere la parte razionale che esige il controllo, lasciando il comando al corpo, porta a un cambiamento nella testa. I pensieri si diradano, come se la nostra mente si sottoponesse a una cura dimagrante. Ed è in quel momento che si comprende qual è l’intento che Lee persegue quando fonda il suo sistema di lotta. Qualcosa che con la lotta stessa c’entra eppure non ha nulla a che fare con essa. Lo scopo è la pace del guerriero.
Bruce Lee rielabora e attualizza parti rilevanti del pensiero orientale sull’arte del combattimento. Li ripulisce dalle cerimonialità che, a suo dire, costituiscono inutili orpelli che ostacolano anziché favorirla, la crescita interiore di un guerriero.
È impossibile raccontare in poche righe l’immensità di un uomo come Bruce Lee. Le alterazioni del suo pensiero, perpetrate talora da chi più gli si dichiara vicino, le accuse ingiuste e gli aspetti più controversi di questo genio che hanno contribuito ad attrargli, oltre l’ammirazione di milioni di persone, le ire e gli odi di molti che gli erano ostili.
È falso sostenere che Bruce Lee ha dissacrato il vincolo fra maestri e allievi. Semmai, egli ha voluto denunciare il fatto che esistono insegnanti che, fingendo di volere condurre alla liberazione, portano gli allievi a credere che il maestro stesso sia il depositario dell’unica verità.
Sii come l’acqua, amico mio
È questa la frase che Lee Jun Fan era solito dire ai suoi. Ed è l’affermazione che più di altre il mio istruttore Mattu mi ha ripetuto, nei momenti in cui vedeva riaffiorare in me rabbia, movimenti scomposti e vecchie abitudini. Luca, proprio perché fluido come l’acqua, riesce ad adattarsi a me. Inventa metodi per farmi capire dove si trova senza ricorrere alle parole, per esempio. Batte ritmicamente i suoi guantoni l’uno contro l’altro, costantemente e senza interruzioni fino a un momento prima di un attacco. Diventa immaginifico nelle descrizioni, lui che definisce sé stesso un tipo essenziale nell’uso delle parole. Mi ricorda continuamente la frase di Lee non come un istruttore che ha assimilato passivamente i principi trasmessi dal fondatore di un sistema di lotta, ma al contrario come qualcuno che crede fermamente che il nostro atteggiamento debba essere, in ogni ambito della vita, duttile e adattabile come l’acqua di un fiume, di un mare o di un oceano. Ma c’è un altro insegnamento che Luca Mattu mi impartisce spesso. Suona più o meno così:
«Solo capendo chi sei puoi capire come esprimerti al meglio. Non si diventa acqua con la forza di volontà. Solo provando diverse forme senti qual è quella che più ti si addice».
Ed è così, dopo qualche anno, che mi rendo conto che è importante mi dedichi a un’arte marziale capace di esaltare le mie caratteristiche. Persino la cecità può diventare, a certe condizioni, uno strumento utile, se non proprio un vantaggio. Matura così la mia decisione di passare al Brasilian Jiu-Jitsu. Ciò non dipende tanto dal fatto che lo stesso Luca Mattu ha scelto di passare a quella disciplina che a differenza del Jeet Kune Do è un’arte marziale agonistica. A muovermi è proprio lo spirito di Lee, il quale invitava le persone a studiarsi attraverso il sistema di lotta da lui creato, di modo da scegliere, qualora lo si desiderasse, la disciplina più adatta per ciascuno. Il Jiu-Jitsu brasiliano è una particolare lotta a terra. In esso il contatto fisico costante annulla ogni vantaggio dato dagli occhi. Ciò in quanto quella che conta è la sensibilità corporea, che consente di seguire i movimenti dell’avversario e, con la pratica, di anticiparli. Con tale disciplina afferro pienamente le diverse forme che l’acqua assume. O se si preferisce, le innumerevoli movenze che il nostro corpo assume, imitando ora quello ora questo animale, quando deve sciogliersi da una stretta o sottrarsi a un attacco in corso. È una esperienza che completa, anziché interrompere, ciò che ho appreso con il Jeet Kune Do.
«Solo capendo chi sei puoi capire come esprimerti al meglio. Non si diventa acqua con la forza di volontà. Solo provando diverse forme senti qual è quella che più ti si addice»
Creatività
Il mio scrivere deve molto, se non proprio tutto, all’incontro con le pratiche olistiche. In particolare, al Feldenkrais e al Jeet Kune Do. Entrambe hanno saputo farmi andare nel profondo di me e mettermi di fronte ai miei talenti. Sembra strano, a distanza di anni, rileggere “Il libro segreto” e constatare quanto Lee insistesse sul ruolo della creatività nelle nostre vite. Sorrido, pensando a chi potrebbe sentirsi quasi ingannato da un volume che promette di dare indicazioni sui migliori sistemi di allenamento per un guerriero e ritrovarsi a leggere diverse pagine dove il grande Bruce sembra filosofeggiare mentre parla di creatività, talenti e scopi di vita. In realtà, praticando, ci si accorge della profonda cultura di un uomo che, unendo incredibilmente l’arte della filosofia in cui eccelleva all’arte della lotta in cui non aveva mai accettato le convenzioni e le competizioni sportive, ha lasciato a tutti noi il manuale perfetto dell’eroe contemporaneo. Senza uno scopo di vita si è schiavi, di sicuro non guerrieri e tantomeno liberi. Senza talenti, è impossibile placare la mente e condurla, addomesticata, dove il guerriero intende accompagnarla.
Luca Mattu, che segue i miei progressi giornalistici e non solo quelli marziali, mi propone di farmi conoscere un suo amico e collega.
Massimo Fenu
È in tal guisa che ho l’opportunità di conoscere un uomo, uno scrittore e giornalista, un istruttore e artista marziale di livello eccelso che incarna la creatività di cui parla Bruce Lee. Se con Luca Mattu la possibilità offertami è l’incontro col mio sé profondo, con Massimo Fenu l’opportunità è quella di dialogare con un uomo che, per me, rappresenta esattamente ciò che di Lee dicevano gli amici e le persone che lo attorniavano. Era sempre diretto nell’esporre il proprio punto di vista su un argomento. Limpido, chiaro e immediato con le parole come lo era con le sue movenze marziali o con i passi di danza, che adorava. Ebbene, Massimo Fenu è un incontro che ha contribuito a trasformare, in un certo qual modo, il mio modo di comunicare. La ricchezza ottenuta con poche, semplici parole, è cosa assai rara. Tendiamo a parlare e scrivere con la speranza di stupire. Perciò abbondiamo di parole, come abbondiamo di tecniche marziali pompose e inutili. Pochi sanno essere efficaci con le parole come coi gesti, con le tecniche di lotta. Massimo Fenu riesce a usare pochi termini, sia nel parlato che nello scritto, giungendo sempre a segno. L’essenzialità del suo parlare resta impressa nella mente di chi lo legge e ascolta. I nostri dialoghi hanno prodotto delle interviste, ma specialmente dei ricchissimi scambi marziali, culturali e umani. Ricordo, fra gli altri, i nostri confronti sui punti di contatto fra Moshé Feldenkrais, scienziato creatore del metodo che porta il suo nome e artista marziale egli stesso e Lee Jun Fan. Non si incontrarono mai, ma, nonostante ciò, esistono fra loro similitudini stupefacenti.
Un approdo inaspettato
Allo stato, sono alcuni anni che non pratico più arti marziali. Eppure, la profondità di quella esperienza trasformativa è ancora in me. Mi guida costantemente nella scelta di qualsivoglia altra sperimentazione olistica io mi accinga a voler valutare ed eventualmente sperimentare.
Oggi mi interesso di tecniche e filosofie che pongono l’accento della loro ricerca sullo spirito, sul lavoro su di sé volto a riattivare antichi saperi e facoltà. Li chiamano poteri extra-sensoriali. Soltanto la base di pratiche prettamente fisiche, ma sottilmente spirituali e nascostamente extra-sensoriali come il Jeet Kune Do e il Feldenkrais mi consentono di immergermi in questa nuova ricerca senza perdermi o farmi trarre in inganno.
In attesa di poterne parlare, forse da queste stesse pagine, condivido una scoperta che mi ha riportato piacevolmente agli insegnamenti del “Piccolo drago”. A chi ha piacere di intraprendere un lavoro su di sé e una scoperta progressiva di talenti e potenzialità nascoste, che prendono le mosse da tecniche corporee di sicura validità, segnalo il libro: “Guerrieri metropolitani” di Salvatore Brizzi.