Riteniamo improbabile che Platone possa aver avuto in qualche modo accesso ai Testi della Disciplina Arcaico-Erudita. Non solo perché se lo avesse fatto e se li avesse ben compresi le sue descrizioni di “Atlantide” sarebbero state assai più particolareggiate, ma perché al tempo in cui visse Platone, tali testi erano gelosamente custoditi nel Santuario Madre di Eleusi, ed erano esclusivo appannaggio di Iniziati di alto grado nell’ambito delle Scuole Sacerdotali. Vero è che Platone fu senza alcun dubbio anche un Iniziato eleusino, ma a quanto ci risulta non dovette mai andare ad Eleusi oltre la Mysta, il primo grado dell’Iniziazione, che non gli avrebbe consentito certo alcun accesso alle biblioteche ed agli archivi. E il suo percorso iniziatico proseguì successivamente in Egitto e, in Grecia, nell’ambito di circoli dell’Eleusinità Orfica (che erano vincolati da uno status di sottomissione più morale che formale all’Eleusinità Madre e che nella realtà erano di fatto totalmente autonomi), fino al suo approdo finale all’Ordine Pitagorico, fra il quale e l’Eleusinità Madre già si era consumata una brusca rottura dovuta a questioni politiche e dottrinali.
Comunque, a prescindere dalle considerazioni sin qui espresse, i dialoghi di Platone Crizia e Timeo, una volta che abbiamo preso atto delle loro limitazioni e della parzialità della visione che ci offrono, sono tutt’altro che da rigettare e ci offrono numerosi margini di attendibilità. Non bisogna, infatti, correre il rischio di gettare, come si suol dire, il bambino insieme all’acqua sporca. E vediamo perché.
Solone, il legislatore ateniese vissuto dal 630 al 558 a.C., nel corso di un suo viaggio in Egitto, secondo diverse fonti antiche avrebbe avuto modo di vedere delle iscrizioni fatte eseguire sei secoli prima dal Faraone Ramses III sulle mura del Tempio di Medinet Habu, iscrizioni che si riferivano a fatti avvenuti migliaia di anni prima e relativi alla scomparsa di una grande precedente civiltà in seguito ad un’improvvisa catastrofe. Interessatosi ad esse, egli le fece tradurre in lingua Greca dal tebano Sonchis, certo di trovarsi di fronte a documenti di grande importanza che magari intendeva utilizzare per le sue opere. Il grande Iniziato e scrittore dell’antichità Plutarco di Cheronea (46-125 d.C.), nella sua Vita di Solone, ci riferisce invece che quest’ultimo avrebbe avuto modo di apprendere la storia di “Atlantide” dai sacerdoti del Tempio della Dea Neith a Sais (l’odierna Sa El-Hagar), una città antichissima chiamata in lingua Egizia Zau, sorgente sulla sponda orientale del ramo di Rosetta del Nilo, nel Basso Egitto. Ci narra infatti Plutarco che Solone «si recò in Egitto ed ivi dimorò per qualche tempo, come egli stesso afferma, “alla foce del Nilo, sui lidi di Canopo illustre”. Stette presso Psenofe Eliopolita e Sonchino Saita, dottissimi tra i sacerdoti d’Egitto, e attese con essi a discorrere di Filosofia, apprendendovi ciò che si narrava dell’Atlantide, come scrisse Platone, e proponendosi di dirne in versi greci»[1]. E ancora: «Solone si accinse poi a scrivere dell’Atlantide, di cui aveva udito parlare dai dotti di Sais, lavoro di grande impegno e utile agli Ateniesi, che non andò però avanti, non perché occupato, come riferisce Platone, ma perché impeditone dalla vecchiaia e dalla vastità dell’opera»[2]. Una conferma di ciò la troviamo anche nelle Storie di Erodoto e nella Biblioteca Storica di Diodoro Siculo[3]. Si evince, inoltre, da quanto riporta Plutarco, che le informazioni raccolte da Solone potrebbero essere state ben superiori e più ampie rispetto a quelle poi acquisite da Platone e riportate nei suoi dialoghi.
In ogni modo, a prescindere da dove effettivamente Solone abbia acquisito certe informazioni (non possiamo assolutamente escludere che le abbia raccolte in più fasi e in più luoghi distinti durante la sua permanenza in Egitto), e che la vecchiaia e la morte avrebbe impedito al grande legislatore di farne uso o di realizzare l’auspicata opera in versi a cui le fonti si riferiscono, non vi è motivo di dubitare che esse siano effettivamente pervenute, alcuni decenni più tardi, a Platone (che, non occorre dimenticarlo, di Solone era un discendente). Quest’ultimo, come riporta Proclo (il grande Iniziato e Filosofo neoplatonico, nonché seconda massima guida degli Eleusini durante la fase della clandestinità, titolo sacrale che aveva ricevuto e ereditato da Plutarco di Atene), si recò personalmente in Egitto in cerca di conferme che comprovassero la veridicità degli appunti di Solone. Platone giunse così dapprima a Sais, dove ebbe un colloquio con il Grande Sacerdote Pateneit, in seguito a Heliopolis, dove incontrò il Sacerdote Ochlapi, e infine a Sebenytus, dove ebbe modo di parlare con lo Hierofante Ethimone. E, come attesterebbero varie fonti, tutti e tre questi autorevoli uomini di religione avrebbero confermato al Filosofo la veridicità della storia e delle vicende che aveva appreso tempo prima Solone.
La presenza ed il soggiorno in Egitto di Platone ricevono conferme da varie fonti, alcune delle quali ci parlano addirittura di una permanenza di ben tredici anni del Filosofo ateniese nella terra bagnata dal Nilo, durante i quali egli avrebbe anche ricevuto particolari insegnamenti iniziatici a Heliopolis e a Memphis. Questo particolare ci è confermato in particolare dal Filosofo Ermodoro di Siracusa, allievo e amico di Platone nel corso dei viaggi che lo stesso fece in Sicilia tra il 388 a.C. e il 360 a.C., e anche da Strabone, che nella sua Geografia, di ritorno dal suo viaggio in Egitto, scrisse: «Abbiamo visto degli edifici destinati un tempo ad ospitare i sacerdoti, ma non è tutto: ci fu mostrata anche la dimora di Platone e di Eudosso, perché Eudosso aveva accompagnato Platone sino a lì. Arrivati a Eliopoli, vi si stabilirono ed entrambi vissero là per tredici anni nella comunità dei sacerdoti (…). Questi sacerdoti, così profondamente versati nella conoscenza dei fenomeni celesti, erano allo stesso tempo delle persone misteriose, poco comunicative, e non è che con il passare del tempo ed abili accortezze che Eudosso e Platone poterono ottenere di essere iniziati da essi ad alcune delle loro speculazioni teoriche. Ma questi barbari conservarono per sé, nascosta, la parte migliore. E se il mondo deve loro di sapere oggi quante frazioni di giorni bisogna aggiungere ai trecentosessantacinque giorni pieni per ottenere un anno completo, i Greci hanno ignorato la durata vera dell’anno e molti altri fatti della stessa natura, sino a quando delle traduzioni in lingua Greca delle memorie dei sacerdoti egiziani hanno diffuso queste nozioni tra gli astronomi moderni, che hanno continuato sino ad oggi ad attingere ampiamente in questa stessa fonte come negli scritti ed osservazioni dei Caldei»[4].
La presenza ed il soggiorno in Egitto di Platone ricevono conferme da varie fonti, alcune delle quali ci parlano addirittura di una permanenza di ben tredici anni del Filosofo ateniese nella terra bagnata dal Nilo, durante i quali egli avrebbe anche ricevuto particolari insegnamenti iniziatici a Heliopolis e a Memphis.
Se il matematico e astronomo Eudosso di Cnido, discepolo di Platone, si era rivolto ai propri amici per finanziare il suo viaggio in Egitto, Plutarco di Cheronea ci riferisce che Platone dovette trasformarsi in abile mercante per far fronte alle spese del viaggio («Platone sostenne le sue spese di viaggio vendendo olio in Egitto»). In pratica iniziò a inviare in Egitto via nave carichi d’olio prodotto dai suoi oliveti.
Interessante, sempre riguardo al soggiorno di Platone in Egitto, è quanto scrisse negli anni ‘50 lo studioso francese Roger Godel: «Se le guide dei tempi di Strabone poterono mostrare presso il tempio la camera in cui Platone risiedette per diversi anni, è perché il soggiorno gli fu utile. I santuari egiziani disponevano da un secolo, di interpreti accreditati per conversare con i Greci. Si erano ricevuti, istruiti ed a volte iniziati dei viaggiatori qualificati: Solone, Pitagora, Erodoto, Democrito (…). A proposito dell’insegnamento del sacerdote egiziano Sechnuphis si può leggere: “Platone ascolta come ascoltava Socrate, il suo compagno africano esaltare la giusta via davanti alle prospettive della morte (…)”. Se Platone giunse ad intrattenersi con i più alti dignitari di Eliopoli, come ha dichiarato per scritto il suo discepolo Ermodoro, le comunicazioni che egli ricevette dovettero appartenere a questo fondo perfettamente unificato. Le comunità di Eliopoli offrivano ad un ricercatore immense risorse. A condizione di essere gradito e di ispirare fiducia, poteva consultare attraverso persona interposta delle biblioteche di un valore inestimabile, una raccolta di osservazioni astronomiche continue di millenni»[5].
La più comune obiezione dei critici e degli scettici di ogni tempo rispetto alla veridicità della storia di “Atlantide” presentata da Platone nel Timeo e nel Crizia è che il Filosofo ateniese intendesse proporla come una sorta di narrazione immaginaria, di mera allegoria filosofica della sua società ideale, già esemplarmente enunciata anni prima nella Repubblica, e che egli intendesse, attraverso la tecnica maieutica del dialogo filosofico, costruire uno schema di vita sociale che fosse allo stesso tempo razionale e scientifico e capace di comprendere in sé gli aspetti morali e religiosi della natura umana. Opere quindi, secondo il parere di uno degli scettici e negatori per eccellenza, il britannico Paul Jordan, tese a sviluppare il tema del posto dell’umanità nell’universo intero, dell’essere dai primi principî: dalle origini e dalla natura del mondo attraverso la storia ad una comprensione del modo migliore in cui la vita dovrebbe essere vissuta dagli esseri umani[6].
Ma appare chiaro ed evidente che la descrizione di “Atlantide” offertaci da Platone non rappresenti affatto un’immagine speculare della società descritta nella Repubblica. Tra le due visioni ci sono differenze significative, in molti punti addirittura inconciliabili. L’ideale autoritario di un regime governato da una dinastia di Re-Filosofi si fondava sull’esistenza di un unico stato di matrice imperiale e imperialista, consapevole e custode delle proprie radici, e non su una confederazione estesa di popoli diversi, riuniti sotto un vecchio sistema di monarchi a cui era impedito di esercitare un potere assoluto perché soggetti all’autorità di un consiglio formato da membri di pari grado.
Come ha osservato Frank Joseph[7], anche nel caso che la storia di “Atlantide” fosse stata in qualche modo ispirata dalla Repubblica (ma così non è), l’aggiunta di una notevole mole di materiale supplementare e di carattere non filosofico (come la dettagliata descrizione dell’architettura delle città, dei porti, dei canali, degli ippodromi, e così via) non potrebbe essere servita a illustrare ulteriormente quanto già trattato in maniera efficace nella Repubblica, e quindi si sarebbe trattato di una ripetizione superflua, qualcosa di assai raro nell’opera di questo grandissimo autore.
La sua storia può essere più correttamente inquadrata se teniamo conto che non voleva e doveva trattarsi di una sorta di lavoro a sé stante, una specie di anomalia rispetto ad altre sue opere filosofiche, quanto piuttosto, come vedremo più avanti, soltanto una parte di una trilogia non (ufficialmente) conclusa concernente i maggiori eventi che avevano modellato la storia del mondo fino alla sua epoca.
Come osserva sempre Frank Joseph, nel Timeo si parla della creazione del mondo, della natura dell’uomo e delle prime società civilizzate, mentre nel Crizia, dialogo considerato incompleto ma in realtà soltanto non “limato”, troviamo il dettagliato resoconto di una guerra avvenuta in tempi assai remoti tra Atlantide e Atene e delle sue conseguenze. La parte finale è invece dedicata alla descrizione e interpretazione degli eventi critici di un passato assai più prossimo al tempo di Platone. Quindi, la storia di Atlantide che Platone aveva acquisito dagli appunti del suo avo Solone (e di cui, molto probabilmente, aveva egli stesso trovato le conferme durante il suo lungo soggiorno in Egitto) e che aveva utilizzato nei suoi dialoghi avrebbe dovuto far parte di un progetto di gran lunga più complesso.
Ciò che più conta è che se quel racconto fosse una mera invenzione allegorica non vi sarebbero al suo interno così tante corrispondenze con dati storici a cui abbiamo accesso, né permetterebbe di colmare logicamente le innumerevoli lacune nella nostra conoscenza dell’antichità pre-classica, saldando tutta una serie di informazioni altrimenti disconnesse e isolate.
Anche William Bleckett, nel suo celebre saggio del 1881 Lost History of the World, rilevò l’attendibilità storica del Timeo e del Crizia. Egli scrisse che «Platone descrive gli eventi in modo assai diverso da una finzione. Privo dell’ingenuità delle favole, e senza indulgere nel misticismo e nell’immaginazione, il suo racconto dello svolgimento dei fatti assume la forma di una grande cronaca storica»[8].
L’accuratezza e l’attendibilità di Platone in quanto storico è stata sotto molti aspetti potuta essere verificata solo nel corso dell’ultimo secolo, grazie a numerosi riscontri archeologici. La sua descrizione della sorgente sacra le cui acque scorrevano attraverso l’Acropoli, ad esempio, era sempre stata considerata del tutto mitologica, finché non sono venuti alla luce frammenti di vasi di epoca micenea, risalenti al XIII secolo a.C., raffiguranti proprio una fonte nel bel mezzo dell’Acropoli, evento che ha costretto gli studiosi a guardare ai suoi scritti sotto una nuova luce. Poi, nel 1938, ulteriori scavi hanno permesso di scoprire che nell’antichità, in seguito ad un terremoto, si era chiusa una sorgente che si trovava presso l’Acropoli, esattamente nel punto indicato da Platone. E negli anni ‘50 una squadra di archeologi Greci, Tedeschi e Americani ha avuto modo di verificare che il quadro dell’Atene del V secolo a.C. da essa delineato corrispondeva alla descrizione di Platone con sorprendente esattezza. Sia l’identificazione della fonte sacra dell’Acropoli, sia la precisa descrizione della struttura urbanistica di Atene, secondo Joseph testimonierebbero a favore dell’affidabilità storica di Platone.
Robert Catesby Tagliaferro, uno dei più grandi e stimati filologi classici degli Stati Uniti, nella sua prefazione ad una edizione del 1944 della traduzione di Thomas Taylor del Timeo e del Crizia[9], in riferimento alla storia e alle vicende di Atlantide narrate da Platone così si espresse: «Mi sembra una testimonianza altrettanto autentica di qualsiasi altra narrazione storica dell’antichità. Non dobbiamo dimenticare che si tratta di Platone, ovvero di colui che ha proclamato che la verità è all’origine di ogni bene tra gli Dei come tra gli uomini, e che in tutte le sue opere non ha mai smesso di cercare gli errori e analizzare la verità. Come possiamo immaginare che sia stato proprio lui a ingannare di proposito l’umanità, pubblicando un romanzo fantasioso e camuffandolo da preciso resoconto storico?».
Risulta quindi difficile credere che Platone abbia voluto arricchire la sua narrazione con una tale mole di dettagli storici, geografici e mitologici al solo scopo di creare una finzione allegorica.
Anche un altro grande filologo e grecista, Enrico Turolla, uno dei più dotti e stimati commentatori e traduttori di Platone, si esprimeva fermamente a favore dell’attendibilità storica del Timeo e del Crizia. Come ha infatti evidenziato Turolla[10], quella di Platone è un’esposizione che si dimostra una trattazione circostanziata e nello stesso tempo sobria e concreta, volta a porre in luce le caratteristiche del paese di Atlantide, con tutta una serie di indicazioni precise sulla posizione dell’isola scomparsa, definita testualmente come «il passaggio ad un grande continente opposto»: l’America, ignota – almeno ufficialmente – agli antichi popoli mediterranei. Indicazioni, dunque, di cui probabilmente nemmeno Platone poteva realmente intendere quanto rispondesse a verità. Non Platone e probabilmente nemmeno Sonchis, il sacerdote di Sais che secondo Plutarco aveva riferito certe notizie a Solone. Sia l’uno che l’altro, secondo il parere di Turolla, risultano essere solo fedeli echi che trasmettono una notizia propagantesi da una remota antichità. E il loro grande merito è non solo di aver creduto, ma di essere stati fedeli nella trasmissione di qualcosa che essi molto probabilmente non comprendevano del tutto.
L’accuratezza e l’attendibilità di Platone in quanto storico è stata sotto molti aspetti potuta essere verificata solo nel corso dell’ultimo secolo, grazie a numerosi riscontri archeologici.
A questo punto Turolla, come riporta Roberto Pinotti nel suo saggio I continenti perduti[11], ci ricorda che per gli antichi Greci, conformemente alla tradizione storico-mitica egiziana da Platone completamente accettata, era esistita all’origine dei tempi una vera e propria teocrazia, nel senso che vi era stata un’epoca ancestrale in cui gli uomini erano direttamente governati qui sulla Terra dagli Dei, un’epoca aurea il cui ricordo è rimasto in buona parte delle tradizioni mitologico-religiose del pianeta, durante la quale gli Dei erano presenti, visibili e tangibili, e in cui il Re-Pastore della terra di Atlantide era Poseidone, dal quale provennero e discesero quei Re e quelle Regine che dettero origine alle dinastie atlantidee. Allo stesso modo, nei testi religiosi e nei papiri egiziani sovente leggiamo dello Zep Tepi, di quel “Primo Tempo” in cui Osiride e altre Divinità governarono l’Egitto durante una prima e longeva Età dell’Oro. Per gli antichi Egiziani era una certezza il fatto che molto tempo prima gli Dei avessero stabilito il sistema dell’ordine cosmico e l’avessero trasferito sulla loro terra. Gli Dei avevano governato l’Egitto per molti millenni, prima di affidarlo alla linea mortale eppure divina dei Faraoni. I Faraoni, dal canto loro, rappresentavano il collegamento sacerdotale con gli Dei e, per estensione, l’anello di congiunzione con il Primo Tempo, di cui custodivano le leggi e le cognizioni di saggezza.
Evidenzia sempre Turolla che nel Crizia e nel Timeo i nomi dei luoghi e dei personaggi sono, sì, greci, ma lo stesso Platone ha cura di avvertirci che essi già dalla fonte saitica erano stati tradotti in Egiziano e che poi Solone, con l’intenzione di fare di questo argomento un poema, li aveva trasposti in Greco, nella forma in cui Platone li ha poi ripresi.
Turolla elenca poi nel suo testo numerosi elementi della narrazione platonica che trovano riscontri oggettivi, anche in rapporto ad un’analisi comparata fra la tradizione mitologica ellenica e vicino-orientale e quella dei popoli amerindi e rileva nel contenuto dei due dialoghi indicazioni “troppo precise”, con un’esattezza di termini tale che soltanto ai nostri giorni, dopo la scoperta dell’America, può essere nel suo complesso compresa ed apprezzata. Oggi, ad esempio, sappiamo che gli storici della conquista spagnola del Messico descrissero nel XVI secolo Tenochtitlán, l’allora capitale degli Aztechi, attorniata da canali e bacini concentrici con al centro un’isola sacra e che questa tipologia di costruzione richiamava per essi il ricordo di una loro originale e perduta patria, Aztlan, descritta dalle antiche tradizioni azteche, “una terra sulle grandi acque”, nel “mare orientale” (l’oceano Atlantico). Una terra da essi raccontata, ma anche rappresentata, come un’isola con una montagna circondata da anelli concentrici di mura e canali. Impossibile a questo punto non fare un paragone o una comparazione con la complessa struttura di mura concentriche e ampi canali navigabili che Platone, nella sua narrazione, attribuisce alla capitale di Atlantide.
Aztlan, secondo le antiche tradizioni amerinde, venne distrutta da una catastrofe in un’epoca remota, inabissandosi fra i flutti del mare. Anche il Popol Vuh, testo sacro dei Maya narra che «le acque, sollevate dal cuore del cielo ribollirono ed un grande diluvio venne sopra tutte le creature» e che gli Dei superstiti, giunti appunto dal mare e sbarcati sulle coste del Messico, portarono con loro sviluppo e conoscenze. E il Codex Troano, un antico manoscritto Maya facente parte, insieme al Codex Cortesianus, del più ampio Codice di Madrid, narra di una grande catastrofe che avrebbe sconvolto il mondo in un remoto passato, mentre un’iscrizione del Tempio di Palenque narra di un orribile terremoto che sollevò e sprofondò la terra come le onde del mare, con fumo e fiumi di fuoco. Per non parlare del codice-calendario azteco Chimalpopoca, che in una sua parte nota come Leyenda de los Soles (“Leggenda dei Soli”) racconta di come «il cielo calò verso l’acqua e in un giorno scomparve tutto…».
Le testimonianze e i riferimenti fin qui elencati riguardo al ricordo, presente nelle tradizioni mitologico-religiose dei popoli del Mesoamerica, di una antica patria di origine scomparsa e inabissatasi sotto le acque dell’oceano in seguito ad un immane cataclisma, come ha rilevato lo storico Boris Yousef, sarebbero state sicuramente ben maggiori, se i conquistadores spagnoli e i “missionari” al loro seguito non avessero sistematicamente distrutto o dato alle fiamme il 99% dei testi sacri e dei manoscritti di tali popolazioni!
Enrico Turolla torna poi a concentrarsi sulla questione del “grande continente opposto” menzionato da Platone nel seguente passo del Timeo: «In quei tempi lontani era possibile valicare quell’immenso mare [l’oceano Atlantico, n.d.A.], perché in esso era un’isola; e quest’isola stava innanzi a quella stretta foce che ha nome, come voi dite Colonne d’Ercole. Ed era, quest’isola, più grande insieme della Libia e dell’Asia. E a chi procedeva da quella, si apriva il passaggio ad altre isole, e da queste isole a un grande continente opposto, intorno a quello che veramente è mare».
Come risulta evidente, il «grande continente opposto» è appunto l’America e «quello che veramente è mare» non può essere che la restante parte di oceano che si frapponeva fra le isole di Atlantide e le coste americane. E a parere di Turolla basterebbero queste poche righe per eliminare ogni possibilità di discussione. Qui non si tratta di fantasia; d’altra parte nessuno nel Mediterraneo ai tempi di Platone poteva (almeno ufficialmente) sapere ciò. Come non concludere che, se sono vere (come lo sono) le notizie sul continente americano, così pure devono esserlo, a maggior ragione, tutti i dettagli sull’Atlantide?
«In quei tempi lontani era possibile valicare quell’immenso mare, perché in esso era un’isola; e quest’isola stava innanzi a quella stretta foce che ha nome, come voi dite Colonne d’Ercole. Ed era, quest’isola, più grande insieme della Libia e dell’Asia. E a chi procedeva da quella, si apriva il passaggio ad altre isole, e da queste isole a un grande continente opposto, intorno a quello che veramente è mare».
Ebbene, ci troviamo qui di fronte a un evidente paradosso: da un lato abbiamo una folta schiera di eminenti e stimati storici e filologi (Thomas Taylor, Robert Catesby Tagliaferro, Frank Joseph, Boris Yousef, Enrico Turolla e molti altri che per motivi di spazio non ho menzionato, fra cui Albert Rivand, Zadenk Kukal e Ivan Lissner) che non esitano a difendere a spada tratta l’attendibilità storica e la plausibile veridicità della narrazione platonica su “Atlantide”; dall’altro lato abbiamo invece un muro compatto di archeologi “accademici” che considerano tout-court il Crizia e il Timeo opere di mera fantasia e che rifiutano a prescindere e per pregiudizio di prendere anche soltanto in considerazione l’idea dell’esistenza di una civiltà avanzata in un’epoca anteriore a quella che considerano l’attuale linea di civiltà!
Che scopo avrebbero, si chiede sempre Turolla, se fossero un puro gioco di fantasia, taluni dettagli così netti e precisi? Che scopo avrebbero le misure e la suddivisione del territorio, la minuziosa descrizione degli edifici, dei canali concentrici e dei sistemi di irrigazione, la descrizione altrettanto precisa dei riti e delle cerimonie religiose e altri particolari del tutto inutili se non fossero corrispondenti a verità?
Gli scritti platonici in oggetto presentano quindi un evidente nucleo descrittivo, al quale si aggiunge (e qui può essere ravvisato l’effettivo apporto personale di Platone) un altro nucleo, di carattere narrativo, concernente una vicenda storica nella quale si trovò impegnata quella civiltà di cui vengono così minuziosamente descritte le caratteristiche geografiche e politiche. Però, osserva ancora Turolla, la parte storica relativa ad “Atlantide” e alla sua civiltà sembra non aver avuto sviluppo, essa è semplicemente enunciata. Compiuta, infatti, la sua descrizione particolareggiata di “Atlantide”, quando Platone si trova in procinto di iniziare la narrazione di altri eventi di natura storica o bellica, il testo del Crizia, subitamente quanto inspiegabilmente, si interrompe. È noto che un terzo dialogo, intitolato Ermocrate, avrebbe dovuto affiancarsi, nelle intenzioni di Platone, al Timeo e al Crizia, fornendo maggiori informazioni riguardo alla mitica terra scomparsa e alla sua storia.
Alcuni storici, fra cui Boris Yousef, hanno ipotizzato che l’Ermocrate possa essere stato effettivamente scritto da Platone, ma che sia stato fatto scomparire già nell’antichità per la “pericolosità” dei suoi contenuti. Ma questa, purtroppo, in mancanza di riscontri oggettivi, resta soltanto un’ipotesi. Di diverso avviso è Turolla, che evidenzia invece proprio l’importanza di questa interruzione. Essa sarebbe a suo parere una prova molto importante che ci assicura la veridicità di tutto il nucleo descrittivo. Platone avrebbe sì preparato la narrazione della guerra, ma lo avrebbe fatto fino al momento in cui era viva in lui l’attesa di esporre la parte proveniente dalla fonte sacerdotale egiziana. Una volta compiuta l’esposizione, Platone, a cui non potevano interessare vaghe fantasie, avrebbe troncato improvvisamente ogni cosa. Venuto insomma a mancare l’appoggio della fonte (per via della limitatezza o dell’incompiutezza delle informazioni di Solone che Platone aveva acquisito), svanivano anche l’interesse e il dialogo, e la trilogia stessa [il Timeo, l’interrotto Crizia e il (forse) mai scritto Ermocrate], definita significativamente “Atlantica” a riprova del peso attribuito dall’Autore alle notizie sulla terra perduta, doveva restare per sempre incompiuta.
Ma, al pari di tanti storici e filologi contemporanei, anche numerosi eruditi dell’antichità ritenevano assolutamente veritiera e degna di fede la narrazione platonica su “Atlantide”, allo stesso modo di qualsiasi altra narrazione storica. Nell’antichità classica, infatti, tranne rare e sporadiche eccezioni, nessuno dubitava della storicità del Timeo e del Crizia e vi era la diffusa convinzione che Platone si fosse ispirato a documenti reali e a tradizioni più antiche. Anche perché, all’epoca in cui tale narrazione veniva accettata non solo come insegnamento maieutico-filosofico ma anche come evento storico, c’erano in circolazione molte altre prove a favore della sua autenticità. Come rileva Frank Joseph, il geografo Posidonio di Rodi credeva fermamente nell’esistenza della mitica terra perduta e condusse le sue ricerche a Cadice, la Gades del Crizia, in relazione al regno atlantideo di Gadeiros. E a tale proposito Strabone annotò: «Fece bene [Posidonio, n.d.A.] a citare l’opinione di Platone, secondo il quale la tradizione concernente l’isola di Atlantide doveva essere considerata qualcosa di molto più concreto che una leggenda»[12].
Una vasta schiera di autori antichi fra cui Teofrasto (allievo di Aristotele, che aveva più di vent’anni quando Platone morì), Tucidide (contemporaneo di Platone), Teopompo di Chio, Posidonio di Rodi (che scrisse intorno al 70 a.C.), Tertulliano, Diodoro Siculo, Strabone, Pomponio Mela, Plinio il Vecchio, Seneca, Claudio Eliano, Filone d’Alessandria, Ammiano Marcellino, Siriano e Giamblico consideravano notoriamente Atlantide una realtà storica e non finzione.
A conferma della veridicità e dell’attendibilità delle narrazioni platoniche su “Atlantide”, risulta interessante anche quanto ci riferisce sempre Proclo nel suo Commento al Timeo, ovvero che il Filosofo Crantore da Soli, primo commentatore di Platone, allievo di Senocrate e membro dell’Accademia di Atene, volle personalmente recarsi in Egitto in cerca di conferme delle notizie raccolte da Solone e poi inserite da Platone nei suoi celebri dialoghi: «Crantore aggiunge che tutto questo è confermato dai profeti degli Egiziani, i quali affermano che i particolari, così come li ha narrati Platone, sono incisi su alcune colonne che si conservano ancora»[13].
Crantore, dunque, come ci riferisce Proclo – una fonte che per quanto tarda è considerabile autorevole e degna di fede – trovò personalmente in Egitto le conferme che cercava, conferme che ai suoi tempi erano ancora perfettamente visibili e accessibili. Le opere di Crantore, fra cui un suo celebre Commento al Timeo, sono purtroppo andate perdute, ma la loro esistenza era ben nota fino all’età romana imperiale.
E, sempre Proclo, nel suo Commento al Timeo, scrive: «Secondo lui [Giamblico, n.d.A.], e anche secondo il nostro precettore Siriano, certe contrarietà ed opposizioni non sono introdotte con lo scopo di rifiutare la narrazione, poiché al contrario si riconosce che tale è il resoconto di fatti realmente accaduti». E ancora, menzionando un’opera del geografo Marcello purtroppo oggi andata perduta, Proclo scrive: «Che un’isola così grande un tempo esistesse, è evidente da quanto è detto da certi storici a proposito del Mare Esterno. Perché, secondo loro, vi erano sette isole in quel mare ai loro tempi, sacre a Persefone, e anche altre tre d’immensa grandezza, una delle quali era sacra a Plutone, un’altra ad Ammone, e quella in mezzo a Poseidone, e la sua lunghezza era di mille stadi. Essi aggiungono che i suoi abitanti conservarono il ricordo dei loro antenati, o dell’Isola Atlantica che là esisteva, e che era in verità prodigiosamente grande; che per molti periodi ebbe il dominio su tutte le isole del Mare Atlantico, e anch’essa era sacra a Poseidone. Queste cose, perciò, Marcello scrisse nella sua Storia Etiopica. Se tuttavia sia così, e se tale isola esisteva un tempo, è possibile accettare ciò che di essa è detto come storia (…). E così, riguardo a molto di ciò che è detto della grandezza dell’Isola Atlantica, per mostrare che non è giusto non credere a ciò che fu detto da Platone, e che deve essere accettata come storia vera».
Occorre a questo punto anche decisamente sfatare quella errata, ma fin troppo diffusa, convinzione che, al di fuori dei dialoghi Timeo e Crizia di Platone non esista alcun riferimento antico di prima mano su “Atlantide”, o comunque si voglia chiamare questa grande civiltà scomparsa nord-atlantica. Una convinzione, come vedremo, profondamente errata, ma continuamente alimentata da certi archeologi “accademici” che, invece di dedicarsi a solerti scavi e a nuove scoperte nell’interesse dell’intera umanità, si ergono al ruolo di negatori di professione.
«Che un’isola così grande un tempo esistesse, è evidente da quanto è detto da certi storici a proposito del Mare Esterno. Perché, secondo loro, vi erano sette isole in quel mare ai loro tempi, sacre a Persefone, e anche altre tre d’immensa grandezza… Essi aggiungono che i suoi abitanti conservarono il ricordo dei loro antenati, o dell’Isola Atlantica che là esisteva, e che era in verità prodigiosamente grande…»
A prescindere dal fatto che in occasione delle festività Panatenee (Παναθήναια), che si tenevano ogni anno ad Atene in onore di Atena Poliade in quanto protettrice della città, le donne indossavano pepli ricamati con motivi simbolici in alcuni dei quali compariva la vittoria di Atene sulle forze di Atlantide (e questo avveniva già prima della nascita di Platone), se escludiamo i Testi della Disciplina Arcaico-Erudita delle scuole eleusine (in quanto, come abbiamo spiegato, essendoci pervenuti attraverso molteplici trascrizioni, non possono costituire una prova), già da prima di Platone esistevano numerose opere che facevano direttamente riferimento ad “Atlantide” o comunque a una grande precedente civiltà tragicamente inghiottita dall’oceano in seguito a un terribile cataclisma. Siamo, ad esempio, a conoscenza di un’opera scritta diversi decenni prima della nascita di Platone da Ellanico di Lesbo, opera che era intitolata Atlantis, andata purtroppo perduta, ma menzionata da numerose fonti antiche. Per non parlare del Viaggio ad Atlantide di Dionisio di Mileto, uno storico e logografo greco vissuto fra il VI e il V secolo a.C.; un’opera incentrata sulla storia e sulla descrizione del continente scomparso che non si esclude possa aver rappresentato, al pari delle informazioni ereditate da Solone, una delle fonti primarie utilizzate da Platone per la stesura dei suoi dialoghi. Questo testo, considerato fino agli anni ‘60 ormai perduto, è stato al centro di un’incredibile vicenda che deve fare riflettere. Una copia manoscritta, a quanto pare di epoca bizantina, del Viaggio ad Atlantide di Dionisio di Mileto venne trovata nella biblioteca personale dello storico e scrittore francese Pierre Benoit dopo la sua morte, avvenuta nel 1962 a Ciboure, un piccolo comune sul versante atlantico dei Pirenei. La notizia fece all’epoca molto scalpore, non solo per l’importanza storica del ritrovamento, ma anche perché Benoit è noto per aver scritto, nel 1920, un celebre romanzo, L’Atlantide, per la cui stesura si era forse ispirato proprio al manoscritto di Dionisio. Non è mai stato spiegato come e dove Benoit avesse acquisito quel manoscritto, ma si ritiene che lo abbia acquistato agli inizi del ‘900 sul mercato antiquario in Nord Africa, dove prestò a lungo servizio nell’esercito. Ma l’aspetto sconvolgente della vicenda è che il manoscritto in questione è stato ufficialmente “smarrito” nei vari passaggi tra i restauratori e le persone che lo presero in custodia dopo la morte di Benoit. È quindi probabile che si trovi tutt’oggi nelle mani di privati o, peggio, di istituzioni o organizzazioni tutt’altro che intenzionate a renderlo di pubblico dominio proprio per via della sua stessa esistenza. Rendere fruibile dal pubblico un testo che traccia la storia di Atlantide precedente ai dialoghi di Platone farebbe infatti crollare molti dei castelli di carte dei paladini del “paradigma”.
Ricapitolando e tirando alcune conclusioni, Platone, sulla base delle informazioni ereditate da Solone e delle quali molto probabilmente aveva ricevuto egli stesso piene conferme durante la sua lunga permanenza in Egitto, nei suoi dialoghi Crizia e Timeo chiama e descrive come “Atlantide” (Ἀ-τλαντὶς) una terra al di là delle Colonne d’Ercole su cui era fiorita una precedente grande civiltà, e ci narra come essa sia sprofondata fra i flutti dell’Oceano in seguito a terribili terremoti e inondazioni, per una sorte di “vendetta” o “punizione” divina, esattamente nove millenni prima della sua epoca.
Platone nei suoi dialoghi non parla di “Sette Grandi Isole”, ma si limita a descrivere una singola grande isola-continente con una città-capitale di nome appunto “Atlantide”. In ambito eleusino riteniamo che Platone abbia deciso di chiamare con tale denominazione la terra scomparsa sotto i flutti dell’oceano proprio per via delle informazioni incomplete, o comunque parziali e di terza mano, che aveva raccolto, in quanto la civiltà Ennica, come descrittaci da Uelesh, Rhashamele’sh e dagli altri autori a cui sono attribuiti i Testi della Disciplina Arcaico-Erudita, non chiamò mai sé stessa, come già abbiamo evidenziato, “Atlantide” o “Atlantidea”. Che Platone, quindi, proprio per via dell’incompletezza delle sue informazioni, si sia riferito alla regione ennica di Hath-Lan-Thiv-Jhea o alla grande e fiorente città di Hath-Lan-Thiv-Hesh, detta anche nei Testi “La Bianca”, che sorgeva sulla costa oceanica dell’Ennosigeo? Entrambe le ipotesi sono alquanto probabili, ma personalmente propendiamo per la seconda, risultando Hath-Lan-Thiv-Hesh una città che, sulla base della descrizione fornitaci da Rhashamele’sh, corrisponde sostanzialmente a quella descritta dalla narrazione platonica.
Con buona pace di tanti pseudo-storici e più o meno improvvisati ricercatori contemporanei, che pretenderebbero con ostinazione di collocare in un contesto mediterraneo i fatti narrati e descritti da Platone, addirittura ipotizzando goffamente che il grande Filosofo-Iniziato si fosse sbagliato e che intendesse scrivere nove secoli anziché nove millenni prima della sua era (cosa già di per sé assurda!) e che egli intendesse invece riferirsi all’eruzione di Santorini, che attorno al XVI secolo a.C. devastò Creta e buona parte del Mediterraneo orientale, i conti tornano, e tornano in maniera matematica.
La scienza ha infatti recentemente appurato e dimostrato che, proprio attorno al 9.600 a.C., si è verificato un secondo grande impatto cometario, ritenuto ancora più devastante del primo. Un impatto cometario che sconvolse pesantemente il mondo di allora con conseguenze a dir poco apocalittiche, determinando addirittura uno spostamento dell’asse terrestre e ponendo repentinamente fine alla piccola era glaciale del Dryas Recente, che aveva avuto inizio in seguito al precedente impatto cometario, quello del 10.800 a.C. E la fine repentina del Dryas Recente determinò anche lo scioglimento di enormi ghiacciai che ricoprivano buona parte dell’emisfero settentrionale, causando un innalzamento del livello dei mari e degli oceani stimato dagli scienziati fra i 150 e i 200 metri, che sommerse buona parte dei tratti costieri della Terra, numerose isole e parte di masse continentali, annientando inesorabilmente qualsiasi civiltà vi si trovasse. Un evento che è stato ricordato e tramandato da tutte le culture e tradizioni della Terra come un grande diluvio! Non a caso, infatti, possiamo riscontrare chiari riferimenti ad una inondazione cataclismatica nei miti e nelle tradizioni di ben duecentotrenta culture sparse su tutti i continenti.
Note
- Plutarco di Cheronea: Vite Parallele – Vita di Solone, XXVI. ↑
- Ibidem, XXXI. ↑
- Erodoto: Storie, I°, 30; Diodoro Siculo: Biblioteca Storica, I°, 96,2 e 98,1. ↑
- Strabone: Geografia, libro XVII°. ↑
- Roger Godel: Platon à Héliopolis d’Egypte. Ed. Belle Lettres, Paris 1956. ↑
- Paul Jordan: The Atlantis Syndrome. Ed. Sutton Publishing Limited, London 2001. ↑
- Frank Joseph: La verità su Platone. In J. Douglas Kenyon: La Storia Proibita. Macro Edizioni, Cesena 2008. ↑
- William Bleckett: Lost History of the World. Ed. Truebner & Sons, London 1881. ↑
- Thomas Taylor – Robert Catesby Tagliaferro: The Timaeus and the Critia, or Atlanticus. Ed. Panthon Books, New York 1944. ↑
- Enrico Turolla (a cura di): Platone, l’Atlantide: letture scelte dal Timeo e dal Crizia. Ed. Garzanti, Milano 1947. ↑
- Roberto Pinotti: I continenti perduti. Ed. Mondadori, Milano 1995. ↑
- Frank Joseph: Opera citata. ↑
- Proclo: Commento al Timeo di Platone, Libro I°, 76, 1-15. ↑