“… io sono la Bellezza che non teme di pronunciare il suo nome…”

Questa affermazione, pronunciata da una sacerdotessa danzante del culto della Dea Madre, sintetizza perfettamente un’intera visione del mondo e della vita, quella dei Sardi che nel III e II secolo A.C. si opposero ai ripetuti tentativi di invasione romani. In queste parole così perentorie vi è tutto l’orgoglio di essere Donna in un’epoca e in luogo – la Sardegna Antica – in cui ogni donna era considerata una Divinità vivente. La Vanità – vera essenza del Principio Femminile del Cosmo – lungi dall’essere osteggiata o stigmatizzata, era invece assolutamente incoraggiata – sia nell’uomo che nella donna – in quanto motore di tutte le cose, vera e propria forza che porta ogni creatura vivente a realizzarsi pienamente, e ogni essere umano a fare della propria vita un’opera d’arte.

“…la Vanità fa sbocciare i fiori e fa brillare le stelle
la Vanità stimola il fanciullo a diventare un Uomo,
e ispira la fanciulla a trasformarsi in una creatura magica:
la Donna…”

Non è un caso che nelle lingue antiche la parola Vanità abbia la stessa etimologia di Donna, Vagina, Cigno. Così come è emblematico di un intero mondo il fatto che le antiche tombe sarde fossero orientate verso le dodici stelle della Costellazione del Cigno… l’indicazione del luogo verso il quale tutti torneremo: il grembo dolce e accogliente della Grande Dea Madre.

Viceversa, è la vanagloria a essere stigmatizzata, in quanto degenerazione della vanità. Se la vanità è ciò che ci spinge a realizzare i nostri sogni, rendendoci orgogliosi della nostra meravigliosa originalità, la vanagloria è ciò che invece delegittima queste aspirazioni quando l’ambizione si trasforma in un’ossessione capace di distruggere chi ci sta vicino e il mondo intorno a noi. Nella Saga di Sandahlia tutti i personaggi – maschili e femminili, positivi e negativi – vivono costantemente questo conflitto interiore, alcuni uscendone rafforzati, altri condannando se stessi a un costante senso di predestinazione alla sconfitta.

In un mondo con queste basi culturali e spirituali, le Donne e gli Uomini che vogliano dare un senso alla loro Vita cercano di uniformare le proprie esistenze rispettivamente al principio femminile e al principio maschile del cosmo.

La Donna – Divinità vivente – deve incarnare nel modo più degno possibile i valori di armonia, energia creativa e sacralità su cui si regge l’Universo. E l’Uomo deve letteralmente lasciarsi investire, suggestionare, ispirare da quei valori, così che possa ascendere al ruolo mistico di Guardiano del Sacro. Il maschio della specie umana che agisca in maniera auto-referenziale, dunque senza un’Anima, è l’essere più pericoloso del creato. L’uomo che invece agisca all’interno della cornice del Principio Femminile del Cosmo avrà dato il senso più compiuto e profondo all’essenza stessa della propria virilità.

“… la Donna nasce Dea, ma l’Uomo può essere un Eroe…”

 L’immagine iconica che meglio dimostra questo concetto, peraltro testimoniata da più fonti e svariati reperti archeologici, è la Capanna delle Adunanze presso il Santuario di Santa Vittoria di Serri, nel Sud Sardegna. In questo luogo, con struttura circolare – in modo da permettere ai presenti di guardarsi in faccia senza manifestazioni esteriori di preminenza di qualcuno sugli altri – i capi-villaggio della zona si riunivano per decidere le sorti del proprio territorio quando una calamità naturale o un’invasione dall’esterno poteva metterne in pericolo l’esistenza. Ebbene, tale assemblea di capi e grandi guerrieri non incominciava se al centro di essa non vi era la donna sacra che custodiva la fonte del nuraghe di zona. Era lei, con la sua sola presenza, a legittimare quell’assemblea: lei sola a decretarne l’inizio, lo sviluppo e la conclusione.

“… può non votare o neppure intervenire,
ma è lei, la Sciamana, che interrompe con una sola occhiata
l’intervento di un guerriero che risulti contrario alle leggi del cosmo
o invece approva il discorso di un Capo che sia in perfetta armonia con esse.
Lei ispira e guida il corretto svolgimento di quell’assise sacra…”

Nel mondo di Sandahlia, così fortemente permeato di queste suggestioni, le donne e gli uomini dell’antica Sardegna seguono una cosiddetta visione poetica dell’esistenza, perfettamente coerente con l’essenza stessa della loro sapienza ancestrale, ovvero che tutto è fatto di Musica e che l’essere umano è una melodia vivente, tremila anni prima che la fisica quantistica arrivasse alle stesse conclusioni. Nella Saga di Sandahlia la massima divinità è infatti la Dea madre, l’Assoluto Sognante, ovvero, appunto, la sintesi mistica di tutte le melodie del cosmo.

Nuraghi, pozzi sacri, tombe dei giganti non sono altro che le architetture in pietra attraverso cui i Sardi dialogavano con l’Assoluto, riuscendo attraverso la sacralità di particolari Riti a ottenere dalla Dea Madre capacità mistiche e poteri divinatori, curativi e creativi.

“…Con le proprie parole, danze e melodie
l’Uomo feconda le melodie del cielo e della terra
creando l’in-canto e rendendo sacra ogni cosa…
il Miracolo della vita sta nell’incontro tra
la Musica dell’Uomo e la Musica dell’Assoluto…”

 Quando Roma – e prima di essa Cartagine – provò senza successo a conquistare la Sardegna, non si ritrovò quindi a scontrarsi con genti che anelavano semplicemente alla propria libertà e autonomia, bensì contro un intero universo di Tradizioni Ancestrali e suggestioni mistiche che rendevano la loro visione del mondo e della vita assolutamente opposta e inconciliabile con quella romana, e che può essere facilmente sintetizzata nella diversa considerazione che i due popoli avevano della figura femminile: a Roma, semplicemente una cosa che passava dal patrimonio del padre a quello del marito; a Sandahlia, invece, il centro di tutto.

Ma anche se in Sardegna i Romani non riuscirono mai a trionfare, i tempi erano ormai maturi affinché un certo modo di vedere le cose – romano, appunto – si diffondesse ovunque, condannando il mondo allora conosciuto a un approccio più cinico e ottuso sul piano spirituale, e razionale e livellatore sul piano culturale. Uno sviluppo degli eventi storici di cui oggi paghiamo le conseguenze, con un Pianeta e un’Umanità devastati dal trionfo degli aspetti più deteriori del Principio Maschile del Cosmo. Tuttavia, è proprio nell’essenza stessa della Sapienza Antica che germina la Speranza: Tutto è ciclico, anche la noiosa e pericolosa banalità del Sistema in cui viviamo, e da quei luoghi dell’antica Sardegna mai sconfitti dall’imperialismo romano si alzano le note e i canti che ancora inneggiano all’Assoluto Sognante, la nostra Grande Dea Madre: 

“…Col tempo, Sandahlia
attirò gli sguardi rapaci di punici e romani…
in tanti, lungo le coste, cedettero
alle lusinghe dell’oro o alla minaccia delle armi
Ma nel cuore di Sandahlia
libere tribù di guerrieri sacri
si opposero con onore ai vecchi e nuovi invasori…
Sullo spartito delle loro anime,
una melodia sovrastava tutte le altre:

l’Assoluto Sognante…” 

LA SAGA DI SANDAHLIA
TRA STORIA E FINZIONE NARRATIVA 

UNA DIVERSA LETTURA DEGLI EVENTI

Sandahlia è la Saga storico-epica che racconta l’epopea del popolo che osò sfidare Roma: il popolo Sardo del III° e II° sec. A.C. Si tratta di eventi storici quasi del tutto sconosciuti al grande pubblico, compresi gli stessi sardi. Ed è già questa una motivazione sufficiente a mettere in moto le proprie energie creative ed organizzative per dare vita a un progetto di tali proporzioni.

L’obiettivo è appunto quello di aprire una finestra (e da questa finestra poter guardare con occhi diversi) su un periodo storico che la quasi totalità della storiografia accademica ufficiale ha voluto incentrare su Roma e la sua ascesa, prima in Italia e poi nel mediterraneo occidentale, in seguito alle tre vittoriose guerre combattute con l’altra grande potenza del futuro mare nostrum: Cartagine. Eppure, credo doveroso sottolineare come, da un’attenta analisi delle fonti a nostra disposizione, si possa serenamente affermare che nel cuore del Mediterraneo, nell’isola di Sardegna, un popolo difese strenuamente la propria originalità culturale, politica, sociale e spirituale, dando vita a un’opposizione durissima ai tentativi di dominazione romana. Un’epopea, appunto, costellata di ben 11 grandi conflitti tra sardi e romani, tra la seconda metà del terzo secolo A.C. (periodo di infiltrazione romana) e la
seconda metà del secolo successivo.

Ma è chiaro che un’operazione storiografica (e narrativa) di questo genere sarebbe comunque inutile se la lente d’ingrandimento (cioè la prospettiva interpretativa) con cui guardiamo a questi eventi storici non riuscisse a svincolarsi da un’impostazione, totalmente dominante presso gli accademici, impregnata di una Filosofia della Storia che vede in Roma il provvidenziale strumento di un destino di progresso e prosperità per il genere umano, ed è da questa visione talmente condizionata da concentrare i propri studi e le proprie conclusioni, appunto, solo sui tempi e i modi dell’affermazione romana nel mondo antico conosciuto.

Noi, invece, vogliamo andare oltre certi steccati troppo presuntuosamente alzati e troppo supinamente accettati, proponendo una diversa (e altrettanto valida) interpretazione degli eventi e una conseguentemente diversa filosofia della storia con cui inquadrali e definirli. Perché solo attraverso una visione più equilibrata della storia e delle fonti storiche potremo ridare dignità alla secolare guerra tra sardi e romani per il dominio dell’isola e magari (perché, no?) arrivare anche ad affermare la tesi arditissima (ma assolutamente legittima, come le altre) di un Centro-Sardegna, quello che nella Saga viene chiamato “il cuore verde-oscuro di Sandahlia” (Marghine, Goceano, Barbagia, Ogliastra) che in realtà non subì mai la conquista romana, mettendo i romani (esattamente come avvenne rispetto alle Highlands scozzesi con la costruzione del Vallo di Adriano e con i Germani dopo la sconfitta di Teutoburgo) nella delicata (ma necessaria) situazione di dover abbandonare qualsiasi proposito di dominio del centro-Sardegna in cambio di una (quasi del tutto) pacifica accettazione delle rispettive zone d’influenza. Una tesi che non appare così ardita, se partiamo dalla considerazione, ipotizzata e sviluppata dal grande archeologo sardo prof. Giovanni Lilliu, secondo cui esisterebbe un sottile filo rosso (la costante resistenziale, come viene definita) che lega il grande passato della civiltà Nuragica a un’altra epopea, quella giudicale dell’epoca medioevale. Circa 3000 anni, quindi, in cui si devono notare tante e tali analogie tra Sardi Nuragici e Sardi Giudicali, dal punto di vista sia politico-istituzionale che antropologico e sociale, da affermare che probabilmente una certa parte della nostra isola non venne mai davvero romanizzata (o latinizzata). Considerazione, questa, avallata anche dalla toponomastica delle zone interne, se è vero che grandi linguisti come M. L. Wagner, H. J. Wolf e Massimo Pittau rilevano una percentuale altissima (33%) di toponimi pre-latini, da ricondurre ad ascendenze di chiara matrice indoeuropea e, almeno per quanto riguarda i fitonimi, di probabile origine mediterranea pre-indoeuropea.

Alla luce di tutte queste considerazioni sorge spontaneo l’interrogativo su come sia stata possibile una tale straordinaria opera di resistenza. La risposta più frequente (e un po’ troppo sbrigativa), basata sulla particolare orografia del territorio del Centro-Sardegna, è che i romani, molto semplicemente, lasciarono perdere ogni velleità di conquista di una zona aspra e difficile su cui manovrare e che, in fondo, non giustificava ai loro occhi un serio impegno militare per la conquista e un serio impegno amministrativo per la conservazione del dominio. Tale tesi non pare suffragata da alcuni fatti incontestabili: innanzitutto l’ostinazione romana nel cercare, sempre e comunque, di imporre il proprio dominio con la forza, unitamente a casi clamorosi di vittorie romane su popoli stanziati in territori dall’orografia ugualmente difficile, i Sanniti su tutti. Se i romani non riuscirono a imporsi sulla “Barbagia”, la risposta a tale fatto storico, di per sé abbastanza eccezionale, va cercata in altri tipi di motivazione. La mia risposta, come autore della Saga di Sandahlia, e che costituisce anche l’input e il filo conduttore dell’intero Progetto editoriale e cinematografico, è che i  Sardi riuscirono ad opporsi agli invasori perché ispirati a una visione del mondo e della vita (quindi spirituale e morale, oltre che materiale) talmente antitetica alla visione pragmatica ed imperiale romana, da giustificare qualsiasi sforzo e sacrificio pur di non cedere a un’idea di sottomissione. Esattamente come, animati dagli stessi valori, riuscirono ad opporsi ai tentativi di infiltrazione egemonica dei cartaginesi per cinquecento anni.

Un riscontro che trova serie analogie solo con i già citati casi delle popolazioni fiere e ostili che abitavano fuori dall’impero romano, al di là del fiume Reno, in Germania, e al di là del Vallo di Adriano, in Scozia.

Insomma è forse giunto il momento di riconoscere ai nostri avi la capacità di aver compiuto imprese straordinarie, riuscendo a resistere alla più grande potenza militare del mondo antico, e che trova conferma nella splendida, oltre che suggestiva, affermazione dello storico Salvatore Merche, secondo cui… i Guerrieri Sardi preferiscono morire con onore sul campo di battaglia, piuttosto che accettare una sconfitta e vivere da schiavi il resto dei loro giorni…

Nella finzione narrativa della Saga, a dire il vero, ci spingiamo addirittura oltre, ipotizzando che ci furono dei momenti in cui la piega degli eventi, e alcuni personaggi protagonisti di quegli eventi, spinsero i loro sogni e le loro ambizioni fino a immaginare di poter estendere all’intero Mediterraneo la propria visione spirituale della vita, una volta che le legioni romane fossero state definitivamente sconfitte a Sandahlia e ricacciate in mare una volta per sempre. E giustificare in questo modo, agli occhi dei contemporanei e dei posteri, le proprie legittime aspirazioni all’eternità.

AMSICORA, EROE SARDO

A questo punto occorre presentare il personaggio cardine, colui intorno al quale ruota la narrazione della Saga: Amsicora. Tale protagonista si situa proprio a metà di quei 3000 anni di continuità (cui accennavamo poco sopra) che vanno dall’inizio dell’epoca nuragica al termine di quella giudicale: ovvero in quel burrascoso III sec. A.C che vide la Sardegna al centro delle mire espansionistiche, prima dei cartaginesi (ormai giunti al loro canto del cigno) e poi dei romani. È quasi come se Amsicora sia stato l’ideale punto di congiunzione tra la grande civiltà nuragica, che lo aveva di poco preceduto, e i Sardi dei decenni successivi, che in lui videro l’esempio e il modello sempre valido per chiunque volesse difendere le proprie prerogative di libertà e il sacrosanto diritto ad esistere come popolo artefice del proprio destino.

Su Amsicora si sa poco o nulla, questo è necessario anticiparlo. L’unica certezza è sulla sua personalità (uomo colto, affascinante e di grande carisma) e sull’evento principale della sua vita: la battaglia di Cornus del 215 A.C in cui Amsicora oppose al console romano Tito Manlio Torquato una coalizione di Sardi di varie provenienze a cui si unirono, in un secondo momento, i punici di Annone da Tharros e di Asdrubale, fratello di Annibale. Questa assenza di notizie certe in merito all’uomo Amsicora ha aperto un campo pressoché illimitato di possibilità narrative, sviluppate però tenendo presenti alcuni punti fermi.

A tale scopo è stato illuminante il contributo di alcuni storici, tra cui vorrei citare Francesco Casula, in particolare il suo saggio: Amsicora, eroe sardo o ascaro cartaginese? nel quale, unitamente al ridimensionamento di Tito Livio come storico realmente obiettivo (almeno per quanto riguarda le vicende sarde), vengono illustrate tutta una serie di argomentazioni attraverso le quali Casula demolisce le fragili basi della tesi storiografica secondo cui Amsicora sarebbe stato un latifondista sardo-punico o un magistrato cartaginese. Senza dilungarci troppo, è qui sufficiente riportare almeno l’argomentazione più degna di essere presa in considerazione: se Amsicora fosse stato davvero di origine punica, afferma Casula, o addirittura nato a Cartagine, non sarebbe mai potuto riuscire a coinvolgere nella coalizione anti-romana le tribù di sardi pelliti delle zone interne, animate da un’avversione agli invasori punici che non era affatto inferiore a quella per i nuovi venuti romani, e che si nutriva di oltre cinque secoli di conflitti. I cartaginesi erano inoltre considerati i responsabili del disboscamento di tanta parte delle foreste sarde (per favorire le coltivazioni di cereali) e quindi la principale causa della diffusione della malaria, prima conseguenza del disboscamento e di
una bassissima attenzione agli equilibri di quelle terre maltrattate.

È dunque molto più probabile il contrario: e cioè che Amsicora fosse un importante membro delle aristocrazie più antiche della nostra terra e che in virtù di questa origine incontestabile, unita alle sue capacità diplomatiche e al suo carisma, lui rappresentasse una garanzia sufficiente, agli occhi dei capi-tribù locali, per accettare la sua proposta di guerra a Roma e la sua guida sul campo di battaglia. In un’ottica di questo genere (e quindi di una diversa interpretazione dei fatti storici) la guerra del 215 non può più essere vista come un episodio delle seconda guerra punica, e quindi come un tentativo cartaginese di far rientrare la Sardegna nella sfera di influenza del loro impero marittimo e commerciale, ma bensì come un episodio a sé stante di un altro conflitto, per noi molto più degno di nota e quindi meritevole di essere portato all’attenzione dei nostri contemporanei: e cioè la guerra dei Sardi contro l’ennesimo invasore della loro terra. E allora, coerentemente a questa ottica interpretativa, l’alleanza di Amsicora con Cartagine non andrebbe più vista come opzione strategica di un presunto capo cartaginese che tenta di aiutare la madrepatria in guerra con Roma, ma bensì come l’unica valida opzione tattica perseguita da un uomo, il nostro Amsicora appunto, abbastanza avveduto e consapevole di questioni militari, da capire che “se il nemico di un tuo nemico è un tuo (possibile) amico”, allora Cartagine può essere un valido alleato nel tentativo di vanificare per sempre qualsiasi velleità espansionistica di Roma sulla nostra terra.

Ma allora perché le fonti latine (poiché di altro non disponiamo) ce lo hanno tramandato come condottiero cartaginese (a volte tratteggiato addirittura con tinte fosche, da uomo ambiguo e corrotto)? Anche qui la risposta appare abbastanza ovvia se ci lasciamo guidare da un pizzico di senso logico e da un’attenta valutazione del comportamento romano in tempo di guerra. Ciò che gli osservatori di cose politiche e militari del III sec. A.C non riuscivano a capire era come fosse possibile che Roma, dopo le ripetute e ravvicinate sconfitte subite ad opera di Annibale al Ticino, alla Trebbia, al lago Trasimeno e a Canne, non solo non si fosse arresa, ma fosse decisa più che mai a riportare la vittoria. Ebbene, i romani furono forse il primo popolo dell’antichità a capire come la vittoria in guerra non coincida con l’esito di una o più battaglie, ma dipenda invece dal più completo coinvolgimento delle forze morali dei propri cittadini. Ovvero: non importa se perdi quasi tutte le battaglie: ciò che conta è resistere sempre e recuperare le forze per vincere la battaglia decisiva: l’ultima. Ed è chiaro che nessuna resistenza e nessun recupero sono possibili se le forze morali necessarie a questi due scopi non sono sorrette da una autentica speranza e fede nella vittoria finale. Dopo le quattro durissime sconfitte rimediate contro Cartagine, arrivò l’insperata vittoria di Cornus del 215 A.C contro l’esercito sardo di Amsicora. Mai occasione fu più propizia per dispiegare tutte le potenzialità della propaganda romana. Amsicora non poteva essere un semplice principe sardo, ma doveva diventare cartaginese agli occhi dei romani, affinché il console Tito Manlio Torquato, che lo aveva sconfitto a Cornus, potesse celebrare il trionfo a Roma affermando di aver sconfitto un condottiero cartaginese e di aver quindi ribaltato la sorte avversa, conseguendo una vittoria sul secolare nemico dopo tante sconfitte patite. Nulla di strano, quindi, che fosse immediatamente seguita una damnatio memoriae dell’uomo e del condottiero Amsicora, finalizzata, anche e soprattutto, a cancellare per sempre qualsiasi riferimento alle sue vere origini: sarde, autoctone, nuragiche. Uno degli obiettivi del nostro Progetto culturale è quindi quello di porre nuovi obiettivi storiografici, una diversa filosofia della storia e una interpretazione alternativa degli eventi storici e delle fonti che ce li hanno tramandati: il tutto ovviamente sorretto dalla finzione narrativa.

Ricapitolando: nella Saga di Sandahlia, e nel progetto culturale ad essa legato, Amsicora è un principe di antica estrazione nuragica, profondamente legato al retaggio culturale e spirituale della sua terra, del quale si considera erede e custode. L’immagine emblematica (presente nel cortometraggio con cui presentiamo il progetto della saga) del nostro Amsicora che in silenzio contempla e ascolta le voci dei suoi antenati (rappresentati dal lungo filare delle Statue dei Giganti di Mont’è Prama) è la metafora perfetta di ciò che intendiamo veicolare: Amsicora rappresenta un universo di valori (ovviamente quelli nuragici di un rapporto sacrale tra Uomo,  Natura e Cosmo) che non può accettare la sottomissione che vorrebbero imporgli uomini appartenenti a modelli di civiltà completamente estranei alla nostra terra: i punici adoratori delle ombre con il loro impero mercantile e materiale, e i romani adoratori del potere, ossessionati dal pragmatismo a ogni costo e dalla loro politica imperiale. Un uomo, il nostro eroe Amsicora, che, in virtù di tale recisa volontà di resistenza, è disposto a mettere in gioco tutto se stesso, fino all’estremo sacrificio, pur di non sfigurare davanti ai propri avi e al popolo che intende guidare e proteggere.

UNA DIVERSA VISIONE DEL MONDO

Questo legame tra Amsicora e la tradizione nuragica è ovviamente onnipresente nel nostro progetto e trova espressione non solo nella “scenografia” che fa da sfondo a protagonisti ed eventi (quella naturale delle nostre bellezze paesaggistiche e quella materiale rappresentata da strutture architettoniche, statuette votive, bronzetti, ecc..), ma anche, e soprattutto, negli altri protagonisti che ruotano intorno alla figura di Amsicora e che, tutti insieme, come il concerto suonato da un’unica orchestra, danno vita al vero protagonista della Saga, cioè Sandahlia stessa. Perché è soprattutto l’antico spirito dei nostri antenati e della nostra terra che noi intendiamo far rivivere, pulendolo dalla polvere dei secoli e scrostandolo di quella patina fastidiosa fatta di mistificazioni e interpretazioni parziali della nostra storia.

Ma torniamo agli altri protagonisti che insieme ad Amsicora vivono e agiscono sull’ideale palcoscenico del nostro progetto cinematografico: ciascuno di loro rappresenta un segmento fondamentale di quell’universo antico nel quale sono immersi: Bèina, la Vergine Guerriera; Thorben, capo del clan degli Uomini-Molosso; Nertha, sacerdotessa e moglie di Amsicora; Gunnar, tragico eroe vivente di Sandahlia; Marcusa, la sciamana custode della fonte sacra del Nuraghe di Mem; e Grimasso, il folle giullare-guerriero di Thurgal, inseparabile guardia-spalla di Amsicora; e poi i nemici di Amsicora: Adelkor, guerriero del clan degli Uomini-Molosso (nonchè figlio di Thorben); Vindex, lo sciamano rinnegato della Foresta di Kehremann; il mercante punico Ammone, maestro di intrighi e di ruberie ai danni dei villaggi sandahlici; e il console romano Tito Manlio Torquato, figura storica realmente esistita, classico rappresentante dell’élite romana, che fu in Sardegna, inviato dal Senato, sia nel 235 che nel 215 A.C. Fu lui ad affrontare Amsicora sul campo di battaglia insanguinato della fatidica Cornus.

Tutti insieme, gli eroi di Sandahlia e i loro avversari, danno vita a una ideale coreografia di donne e uomini che danzano al ritmo di melodie provenienti da un mondo pre-cristiano, in cui, sull’esempio degli eroi omerici (che nell’Iliade e nell’Odissea ci introducono al sistema di valori del mondo antico), il vero senso della vita sta nel realizzare pienamente se stessi (obiettivo innato a ogni creatura, sottolinea Aristotele) sostituendo il cristianissimo senso di colpa (che gli Eroi di Sandahlia troverebbero assurdo e pressoché inconcepibile) con un latente senso di predestinazione alla sconfitta, che emerge chiaro con tutta la sua carica esplosiva quando il corso degli eventi della propria vita ci mette, a un certo punto, davanti all’evidente frustrazione e irrealizzabilità dei nostri sogni e desideri. Gli eroi di Sandahlia, ma ovviamente anche i loro nemici (perché tutti parte del medesimo universo ideale), seguono dunque la bussola del precetto: “Scopri chi sei… fai ciò che sei… gioisci per le tue vittorie e
compatisci te stesso se non realizzi le tue aspirazioni…”

Per quanto riguarda lo specifico rappresentato dal mondo di Sandahlia, quindi la società tribale sarda del III Sec. A.C, abbiamo cercato quanto più possibile (magari permettendoci qualche necessaria licenza poetica) di attenerci ai risultati di quegli studi e di quelle riflessioni che vedono la  Civiltà Nuragica come risultato straordinario e suggestivo di una fusione (probabilmente avvenuta nel 2000 A.C.) tra popoli autoctoni mediterranei, ispirati da una religiosità legata ai culti della terra e dell’acqua, con popolazioni nomadi di origine indoeuropea, portatori di una spiritualità profondissima e diversa, ispirata dall’osservazione del cielo e delle stelle.  Il risultato è un mondo alquanto affascinante, segnato dall’importanza riconosciuta a entrambi i principi, quello maschile e quello femminile, nel definire ogni aspetto creativo e rappresentativo del Cosmo.

Nella finzione narrativa della nostra Saga, questo universo che è Sandahlia, è abitato da Guerrieri sacri e Vergini Guerriere che difendono i valori della Tradizione e dello Spirito, da Sciamane e Sciamani che orchestrano la vita di singoli individui e di intere comunità, e da Sacerdotesse che danzano quotidianamente l’unione sacra tra il cielo e la terra. Un mondo di valori e di suggestioni, l’abbiamo già detto ma giova qui sottolinearlo ancora, che non intende minimamente accettare una passiva sottomissione a diversi modelli di civiltà che, agli occhi degli eroi di Sandahlia, in primis Amsicora, riuscirebbero solo ad alterare l’equilibrio profondo che i Sardi sono riusciti a creare tra se stessi e l’intero universo in cui vivono e sono immersi.

Per rappresentare degnamente, e in maniera chiara e immediatamente percepibile, quei valori e quella visione del mondo e della vita, il nostro progetto si è caratterizzato per  una ricerca del linguaggio più idoneo a rappresentarlo, più che per una ricerca sulla lingua sarda. È infatti quasi impossibile conoscere la lingua dei nostri antenati di quell’epoca, non avendo quasi nulla a disposizione sugli idiomi di stampo nuragico e immediatamente post-nuragico, a parte quel 33% di toponimi (circoscritti per lo più alla Barbagia) che, secondo gli autorevoli studi del Wagner e del Wolff, sarebbero di chiara impronta pre-latina.

Il linguaggio, invece, è stata una sfida interessante, e forse siamo riusciti a vincerla o quanto meno ad affrontarla in modo dignitoso e soddisfacente. Utilizzando come bussola l’assunto in base al quale “la lingua di ogni popolo esprime la visione del mondo e della vita propria di quel popolo”, abbiamo creato divinità ed espressioni verbali capaci di trasmettere immediatamente l’idea fondamentale che anima la spiritualità di Sandahlia: e cioè che l’Universo è nato dallo Spirito della Musica; che la massima divinità è l’Assoluto Sognante (ovvero la sintesi mistica di tutte le melodie) e che il mondo non è altro che musica condensata, in cui ogni aspetto di ciò che è materiale (piante, animali, uomini, stelle e pianeti) e di ciò che è immateriale (idee, sentimenti, sogni, desideri e ricordi) è composto di una musica che gli ha dato vita secondo una propria specifica melodia: sua e solo sua. L’Assoluto Sognante si esprime poi attraverso i suoi quattro diversi aspetti: la Memoria (lo Specchio dei Ricordi), il Pensiero (l’Arco Celeste), il Potere (la Spada Tonante) e il Desiderio (l’Artiglio di Fuoco).

Ovviamente non abbiamo inventato nulla, a parte il linguaggio, appunto: una simile cosmogonia, con la profonda spiritualità che ne deriva, appartiene all’universo mistico di pressoché tutti i popoli antichi (con le dovute differenze, è ovvio, soprattutto lessicali) nonché di popoli (indiani d’America e aborigeni australiani, su tutti) che hanno conservato la propria identità tribale e spirituale fino al secolo scorso, e che, con il loro linguaggio, i loro miti e il loro modo di vivere, ci hanno trasmesso un patrimonio di simboli, semantici e non, capace di svelarci la migliore chiave d’interpretazione del mondo stesso dei nostri antenati sardi.

Scendendo nel particolare, e adeguandoci coerentemente a questa visione degli eventi e del mondo, la Saga di Sandahlia esprime una propria interpretazione (del tutto peculiare, ma legittima quanto le altre) del significato dei Nuraghi e dunque dell’uso che ne veniva fatto. Poiché a ogni Nuraghe corrispondeva una fonte o una polla d’acqua sacra, che il Nuraghe stesso custodiva, e poiché l’acqua è il simbolo universalmente riconosciuto della memoria, nella nostra visione i Nuraghi (soprattutto quelli mono-torre) hanno una funzione divinatoria che viene attuata attraverso il supporto-apporto di donne sacre, definite sciamane. Ma non andiamo oltre, lasciando al lettore la curiosità di scoprire, attraverso la finzione narrativa di questo romanzo, la speciale interpretazione dei grandi monumenti che ci hanno lasciato i nostri Antenati: i Nuraghi, appunto, ma anche le Tombe dei Giganti, i Pozzi Sacri e la Statuaria in generale. Con un pensiero sempre rivolto a quella che è la vera premessa da tenere sempre a mente quando si approccia la lettura di un romanzo di questo genere: e cioè che il mondo dei nostri antenati (e quello Antico in generale) era un universo costellato di simboli, e di valori dati a quei simboli, in cui risaltava una vera e propria Visione poetica dell’Esistenza, che non prescindeva mai dal carattere sacrale connaturato all’universo nella sua interezza e a ogni aspetto di esso. Se, dunque, possiamo indicare uno scopo aggiuntivo che ci siamo prefissi di perseguire con questo lavoro, oltre a quello di guardare con occhi diversi al nostro Passato, è proprio quello di presentare a dei lettori moderni un sentimento e un approccio verso il cosmo che molto probabilmente è ciò di cui abbiamo più bisogno oggi, in un momento in cui l’Umanità e il Pianeta stanno correndo inesorabilmente verso il baratro, senza avere nulla a cui attaccarsi per poter fermare questa corsa insensata e catastrofica. Dal mio punto di vista, la sensibilità e l’universo valoriale degli Antichi rappresentano un’imprescindibile ancora di salvezza.